lunedì 18 agosto 2008

aria condizionata, americani e locali

Altra risata isterica, ma rimaniamo seduti a soffrire il caldo di fianco all'ubriacone. La barista ci viene incontro e accende l'aria condizionata, ossia ci offre due splendidi ventagli - che vengono distribuiti per strada come volantini - che imbarazzati non riusciamo a rifiutare.

La serata sta velocemente precipitando assieme alla voce del vecchietto che si ostina a cantare l'equivalente nipponica di "faccetta nera", ma ad un tratto avviene il colpo di scena: entra un altro pollo straniero! I soliti commensali si guardano stupiti e ricomincia il circo di presentazioni di Raki, della birra che non ordina ma che si trova di fronte e del ventaglio/ariacondizionata.

Ma se io e la Gu riusciamo a ritagliarti un po' di privacy, il neo acquisto è in completa balia di ciò che ci circonda. Considerando che il locale non offre molte distrazioni - il vecchio canterino se n'era andato appena finita la sua canzone -, ci mettiamo ad osservare divertiti il solitario turista, senza però cercare di aiutarlo. Cerca di farsi i fatti suoi e si maledice palesemente per essere entrato, ma l'altro tizio non gli da pace e incalza con il suo sproloquio.

Impietosito dallo spettacolo che mi si para davanti, rompo il ghiaccio e gli rivolgo la parola. Salta fuori che è americano - non si sa di dove esattamente, gli americani dicono solo che sono americani sia che vengano dalla California o dal Missouri -, ha vissuto l'ultimo anno a Seul e ne ha approfittato delle vacanze per fare un salto in Giappone. Arrivato da appena due giorni in terra nipponica aveva già avuto occasione di visitare Tokyo e ne era scappato ben volentieri, visto che era spaventato da tutto e tutti - come lo capisco! -.

Che non sia molto furbo me lo dimostra poco dopo, chiedendoci: "Voi conoscete qualche posticino carino qui a Kyoto dopo andare la sera?" L'innocenza con cui mi pone la domanda mi impedisce di rispondergli male, ma dentro di me penso: "Abbello! Ma credi che se lo conoscessi m'avresti trovato in questo buco di c**o!?"

Finita la birra - sempre a stomaco vuoto - usciamo dopo esserci presi l'ennesima secchiata d'acqua gelida: 1600 yen per due birre! Sigh!

mercoledì 13 agosto 2008

kyoto, cene e Raki

La prima meta della mia effettiva vacanza è Kyoto. Io e la Gu ci arriviamo con uno shinkansen nel tardo pomeriggio, poco prima di cena. Orario di cena giapponese intendo, quindi 6:30-7:00, quando tutti i ristoranti son zeppi di gente con bacchette alla mano.

Verso le otto, una volta sistemati nel nostro piccolo ma ben organizzato ryokan (りおかん, i tipici alberghetti in tipico stile giapponese), cominciamo a vagabondare per le viuzze intorno alla stazione. Per quanto possa sembrare strano dalla quantità di locali che incontriamo, dobbiamo affrettarci a decidere in quale locale sederci, principalmente per due motivi: anzitutto molti ristoranti chiudono presto, spesso intorno alle 10:30, e come se non bastasse espongono cartelli scritti completamente in kanji - numeri compresi -, cosa che lascia poche speranze di trovare un menù comprensibile una volta dentro.

Intorno alle dieci abbiamo ancora la pancia vuota, ma decidiamo di entrare nell'unico posto che espone dei cartelli in inglese che recitano "beer and sakè" - dovete infatti sapere che, in Giappone, questi posticini sono una validissima alternativa ai ristoranti, offrendo da mangiare porzioni abbondanti a prezzi contenuti -.

Una casettina isolata con una porta bassa, solite lanterne rosse accese ovunque, cartelli con immagini e nomi in inglese sembrano farne il posto che cercavamo. Dalle due finestre si intravedono delle luci soffuse ed escono delle risate divertite, qualcuno che canta e una luce di televisore lascia intendere la presenza di un karaoke. Considerate le premesse non possiamo che entrare.

Fatta scorrere la porta dell'ingresso ci aspetta una pessima sorpresa! Uno stanzino che non sarà più grande di quattro metri quadrati contiene: un bancone con cinque - dico cinque! - sgabelli, un televisore - probabilmente il primo modello a colori -, una lampadina senza lampadario appesa al soffitto, un karaoke con una dozzina di canzoni medioevali, uno scaffale coperto di bottiglie di sakè, e, soprattutto, una vecchia che serve da bere a due giapponesi ubriachi sulla stessa età della barista.

Sto per scoppiare in una crisi di pianto isterico quando uno dei clienti ci allunga due sgabelli, cominciando a sciorinare tutte le parole inglesi che gli vengono in mente - ovviamente senza alcun nesso logico e con una pessima pronuncia -. Dopo che la barista ci serve due birre gelate che non avevamo ancora ordinato, il nostro nuovo amico comincia a presentarci il locale nel dettaglio. Ride, ci guarda, indica il solito gatto orientale con la zampa alzata in posizione di saluto - o insulto, non l'ho ancora capito - ed esordisce con un "that is Raki, Raki cat!". Mi sforzo di capire e gli faccio ripetere altre due volte la frase con l'aggiunta di un po' di giapponese, ma alla terza gli do corda e rido annuendo. Bevo una sorsata di birra, ancora a stomaco vuoto, e d'un tratto tutti gli elementi vanno al loro posto: quel soprammobile è un gatto portafortuna + i giapponesi non pronunciano bene la L = intendeva dire "That is a Lucky cat!".

Altra risata isterica.

martedì 12 agosto 2008

miti, shinkansen e ritardi

Prima di annoiarvi con le ultime righe sulla mia vita in Giappone vorrei fare una piccola considerazione e un ringraziamento: stare lontano da casa per quattro mesi non è stato tutto rose e fiori, ma scrivere - per quanto incostantemente - su questo blog mi ha aiutato a mantenere vivo un ponte con la realtà che ho lasciato e che ritroverò, mi ha permesso di non sentirmi troppo solo e di dare/ricevere notizie da tutti coloro che son stati tanto curiosi da fare una capatina a questo indirizzo. Perciò grazie.

Dopo aver affrontato la credenza popolare italiana del giapponese preciso e organizzato - vedi post precedente - devo sfatare altri due miti del Sol Levante: quello del giapponese preciso e puntuale, quello del giapponese infallibile.

Il rapporto con il tempo, infatti, è uno degli aspetti più paradossali di questo Paese; se la Svizzera è puntuale è precisa e puntuale per antonomasia, il Giappone lo è letteralmente, sicuramente per mancanza di ironia. Si dice spesso "essere preciso come un orologio svizzero", ma i proverbi si devono essere fermati a vedere le olimpiadi a Pechino e non hanno di certo mai preso uno shinkansen (しんかんせん, ossia poco fantasiosamente "treno veloce"). Al di là dell'essere dei gioielli di tecnologia su binari e dell'andare ad una velocità che raggiunge i 300 Km/h, la cosa che lascia sconvolti è la loro puntualità. Se, ipotizziamo, alle 12:31 state aspettando che il vostro vagone si manifesti di fronte a voi - cosa che effettivamente succede - ma a cinque minuti dall'orario di partenza ancora riuscite a scorgere le persone sull'altra banchina, preparatevi: se il cartello dice che l'Hikari o il Nozomi di turno partirà alle 12:36 significa che avete pochi istanti per veder inchiodare il vostro treno di fronte a voi, far scendere tutti i passeggeri di turno, salire con tutti i vostri bagagli e trovare il vostro posto. Alle 12:36 il treno partirà.
Tutto ciò ovviamente ha dei pro e dei contro. Uno dei tanti pro potrebbe essere Kyoto>Osaka in 11 minuti, uno dei contro coinvolge nel discorso l'infallibilità giapponese. Se un treno ritarda di pochi minuti, cosa che in Italia potrebbe essere anche una benedizione oltre che la routine, qui in Giappone siete spacciati: le coincidenze saltano, i vostri appuntamenti con loro. Vestite pure il lutto e preparatevi a fare la telefonata di scuse peggiore della vostra vita, siete in ritardo.

Siccome son stato tanto fortunato da essere in vacanza e non aver orari da rispettare, mi son solo divertito ad assistere alla scena appena descritta. Le conseguenze delle telefonate potrebbero essere state fatali. Ma sono in Giappone da quattro mesi, non mi stupisco più di nulla.

domenica 13 luglio 2008

Hara, Bando e ancora Hara

Molte nottate trascorse a lavorare al computer mi sono valse un'assenza prolungata sul blog, di contro ci ho guadagnato delle enormi soddisfazioni accademiche e umane. Urge quindi un breve punto della situazione e relativi approfondimenti:

Il corso livello master con Hara si è concluso lunedì scorso con la presentazione del progetto a tutti e sei i professori - numero interessante per circa cinquecento studenti - della Facoltà di Design, d'ora in avanti Kisode: entro in nell'aula insieme ai miei cinque compagni (tesissimi!) e mi trovo un proiettore acceso, una ventina di posti a sedere, sei fogli bianchi con la lista degli studenti, sei penne tutte allineate, sei bicchieri di vetro vuoti e sei bottigliette d'acqua, un cronometro e un campanello. Unite tutti gli elementi e vi troverete di fronte una vera e propria commissione di laurea pronta e attenta ad ascoltare e criticare quello che avete da dire. Tutt'un tratto ho capito il terrore dei miei compagni. A cosa servono il cronometro e il campanello? Facile. Ogni studente ha a disposizione ben otto minuti per esporre in cosa consiste la mia guida, non un secondo di più. Quanto tempo ho impiegato io? 7' 59". L'Italia è più vicina alla Svizzera che al Giappone.
Alla fine della mia esposizione mi trovo di fronte sei bocche aperte dallo stupore per la mia presentazione - non lo dico per farmi bello, è stato quasi imbarazzante e piacevole sentirsi fare tanti complimenti - finché Hara sensei se ne esce con un "La tua presentazione è bellissima, forse più bella che il tuo progetto". Risate. Discuto con i professori di ciò che può diventare la mia guida, e dopo una ventina di minuti che sono fuori alla cattedra me ne vado tra gli applausi di tutti. Me ne torno al mio posto, dove Hara mi regala il suo ultimo libro con tanto di dedica. Commosso.

Martedì era il torno di Tipografia: appendo i miei tre poster e aspetto il mio turno per esporre. Nel frattempo Bando mi invita ad andare a prendere la mia guida (quella esposta poche righe più su) per parlarne a tutti e mostrare cos'è un bel progetto. Torno e Bando sensei è più loquace del solito, e questa volta traduce tutto con vivo entusiasmo. Fine del corso, applausi a tutti e per tutti per la qualità dei lavori prodotti. Bando però mi dedica un commento privato prima di andarsene: "Sono impressionato dalla tua capacità di sintesi, di apprendimento e di espressione di una cultura per te tanto lontana. Grazie mille". Non ho saputo rispondergli a tono, se non con un imbarazzato e timido "...grazie a lei". Molto probabilmente ero pure diventato rosso.

Sabato arriva il turno del lavoro di gruppo: il fatidico Infomuseum. Due nottate passate in compagnia di tre sciamannati giapponesi che non sapevano più che pesci pigliare, tanto divertimento, tanta disperazione... insomma tanta esperienza. Come ogni lavoro di gruppo - ma non solo quelli aggiungerei - si finisce di fare il possibile solo pochi minuti prima del nostro turno. Ci presentiamo ad Hara vestiti tutti e quattro uguali, stessa maglietta stampata in serigrafia da me ed Ippei, stesse spille preparate di notte, e ben diciotto cartelloni. Hara commenta il lavoro con "Marco, è evidente la forte influenza del tuo stile grafico, molto chiaro e molto pulito. Mi piace molto". Questa volta però non sono per niente d'accordo, ma i complimenti me li prendo lo stesso e non mi lamento; un po' di culo ogni tanto ci vuole.

I voti arriveranno a settembre per posta. Non mi importano molto, sono già contento così. Per adesso non vedo l'ora di rimettere le gambe sotto la mia scrivania del mio adorato Labo.

Ah! Ho finito gli esami, tutti. おわった!

lunedì 23 giugno 2008

amore, uguaglianze e diversità

Sarò anche dall'altra parte del mondo, ma delle costanti meta-culturali riesco a trovarle facilmente. Al di là di mere questioni tecniche che superano le barriere estetiche - vedi Masuda e i suoi loghi che non sono loghi - sembra proprio che l'amore faccia perdere la testa anche in queste isole di terremotati.

È il caso di Akama, latitante da quasi due settimane, prima a causa di un non ben identificato stato di malattia e poi assente senza giustificazione. A me la cosa sembra molto più semplice di quanto non voglia nascondere: si è trovato una ragazza, per la cronaca bruttissima. Qualche mercoledì fa mi viene a dire, tutto ringalluzzito, che venerdì ha un vero 'appuntamento' con la ragazza - da cinico che sono ne ignoro il vero significato - e, casualmente, il sabato successivo non si presenta al nostro incontro e nemmeno a lezione - nel caso vi fosse sfuggito ho detto sabato e lezione nella stessa frase! -. Vabbè, passi la prima! Ma lasciarmi in balìa di Ippei, che non sa prendere una decisione che sia una nemmeno a picchiarlo - non l'ho ancora fatto ma presto potrei arrivarci - e di Masuda, che prima dice una cosa sensata e poi spara tre stronzate colossali, non mi va niente bene! Anche perchè il tempo corre e noi non stiamo facendo un passo in avanti che sia mezzo. Se questi non si danno una mossa fra poco mi trasformo in Karate Kid e li sistemo per le feste prima che lo faccia Hara con noi.

Giusto a proposito di mosse giapponese, ieri sera Davide si è finalmente tolto la maschera del "che bello il Giappone, sono tutti bravi e belli e hano tutti sempre ragione". Credo si sia finalmente reso conto che molte persone con cui lavoriamo hanno dei grossi limiti. Mi spiego meglio: in questi mesi che ho passato qui non ho fatto altro che accorgermi di tutte le regole e pressioni a cui sono sottoposti tutti i giapponesi, dallo spazzino al capo d'azienda, vuoi per forma-cortesia, vuoi per cultura, vuoi anche per legge. A noi italiani tutto questo sembra una grande costrizione, quasi un'annullamento della nostro disordine creativo, ma per un giapponese non è solo la norma, è l'unico modo per fare le cose. Vi faccio un esempio: se mentre state guidando la vostra auto vi trovate sulla carreggiata un bidone e siete soli in tutta la strada, vi spostate sull'altra corsia e proseguite. Nel peggiore dei casi in Italia riusciamo anche a passare sul marciapiede, ma il concetto è lo stesso. Qui in Giappone è diverso: la regola dice che la vostra macchina deve rimanere sulla giusta carreggiata, quindi un giapponese aspetta immobile finchè il bidone non si sposta. Punto. Non c'è modo di continuare, non c'è modo di aggirare l'ostacolo! Al giapponese nemmeno viene in mente di superare, perchè nessuno gliel'ha insegnato! Non c'è la regola che glielo dice. Al di là della parabola il concetto è semplice: qui vivono circondati da talmente tante regole che appena sono lasciati liberi - anche di inventarsi nuove regole - non sanno da che parte cominciare.

Credetemi, questa è la cosa più difficile da accettare e capire qui in Giappone per un italiano.